Il progresso è fatto di pratiche destinate ad andare in disuso, abbandonate e riposte in soffitta per dar spazio a soluzioni “innovative”, orientate a migliorare la qualità del prodotto finale, ma che a volte si riaffacciano conquistando la ribalta nel dibattito e prendendosi la loro rivincita.
È il caso dell’impiego dei raspi nel processo di vinificazione, una pratica che storicamente li vedeva rimanere a contatto con il mosto durante tutta la fase fermentativa ma che è stata superata dalla fine dell’800 con l’introduzione della diraspatura.
Nonostante questo tipo di macerazione sia infatti ancora considerata fuori moda e la diraspatura resti un passaggio pressoché sistematico, non solo esistono delle realtà dove il raspo in vinificazione è valutato positivamente, regioni vinicole cioè dove questa filosofia non è stata mai abbandonata per motivi stilistici come Châteauneuf-du-Pape (Côtes du Rhône), il Médoc (Bordeaux) e la valle della Loira, ma la ricerca scientifica sta spingendo da anni per evidenziarne le potenzialità esplorandone in maniera più approfondita gli effetti sulle caratteristiche del vino.
L’ultimo studio in ordine di tempo è quello dei ricercatori dell’Università di Bordeaux Marie Le Scanff e Axel Marchal, che hanno recentemente pubblicato il loro lavoro sul Oeno-One. Il loro sforzo è stato focalizzato sul contributo che la presenza dei raspi può dare sulla concentrazione di un composto dolcificante, l’astilbina, oltre al riflesso che la sua presenza può avere su aspetti sensoriali del vino, come la percezione gustativa.
Nel corso di tre annate – 2019, 2020 e 2021 – i due ricercatori hanno condotto esperimenti in Borgogna, Beaujolais e Bordeaux sui vitigni Pinot nero, Gamay e Merlot. Per ciascun esperimento, con uve provenienti dallo stesso appezzamento, si è effettuato un confronto tra due procedure, la prima che escludeva totalmente i raspi e la seconda che ne utilizzava dal 15 al 50%. I campioni sono stati prelevati durante tutto il processo di vinificazione per essere analizzati mediante cromatografia liquida accoppiata con spettrometria di massa ad alta risoluzione (analizzatore UHPLC-Exactive, Orbitrap).
Il primo dato emerso dall’osservazione è stato che l’aggiunta dei raspi non ha avuto alcun effetto sul pH o sul contenuto alcolico. I ricercatori hanno poi spostato la loro attenzione sull’astilbina, polifenolo inodore che apporta consistenza e densità nel gusto riducendo la sensazione di calore data dall’alcol. Quello che si sa dell’astilbina, contenuta nei vini rossi secchi, è che viene fortemente influenzata dall’aggiunta di raspi dal momento che quest’ultima ne aumenta significativamente la concentrazione.
Il dato interessante emerso dallo studio è che l’incremento di astilbina nel vino conseguente all’impiego dei raspi varia a seconda del vitigno. Mentre il contenuto di astilbina è inferiore nei vini Merlot rispetto ai vini Pinot nero o Gamay, il rapporto tra la concentrazione dei vini delle due modalità (con o senza raspi) è più elevato nel Merlot rispetto al Pinot nero e al Gamay.
Il motivo di questo risultato è stato evidenziato andando a verificare e studiare la localizzazione dell’astilbina nelle diverse componenti del grappolo, a seconda del vitigno. Nella varietà Merlot è stata riscontrata una maggiore abbondanza di astilbina nei raspi rispetto alle bucce, mentre per il Gamay e il Pinot nero la quantità totale di astilbina in un grappolo era presente in proporzioni uguali nei raspi e nelle bucce.
Queste evidenze apportano nuovi strumenti per comprendere meglio la pratica della vinificazione a grappolo intero da un punto di vista chimico e aprono a nuove possibili considerazioni per un ritorno ad un suo impiego che possa rispondere anche a scelte di natura stilistica.
Fonte: Horecanews.it