domenica, Novembre 24, 2024
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Il vino dell’antica Roma? Come quello georgiano grazie alla vinificazione in anfora

Ricercatori dell’Università belga di Gand ha proposto un nuovo approccio per lo studio della vinificazione romana attraverso il cofronto con quella georgiana

Che il vino fosse uno degli elementi più fortemente radicati negli aspetti della vita dell’antica Roma, dalla sfera sociale a quella culturale ed economica, è dato storico ampiamente testimoniato non solo dalla tradizione scritta ma dalla ricerca archeologica che nel corso dei secoli ha fornito preziose evidenze sulla viticoltura, la produzione e il commercio del nettare di Bacco.

Quello che non si è mai riuscito a ricostruire in toto, al di la di alcuni passaggi descrittivi in chiave letteraria, è stato un quadro puntuale degli aspetti sensoriali messi in relazione alle tecniche di produzione dei vini dell’epoca, una dimensione che è stata recentemente esplorata da un team di archeologi ricercatori dell’Università belga di Gand che ha proposto un nuovo approccio enologico allo studio dello strumento per eccellenza per la vinificazione romana, i “dolia”, attraverso il confronto con i moderni “qvevri” georgiani.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Antiquity, ha consentito come conseguenza degli approfondimenti portati avanti con questo parallelismo, di delineare un vero e proprio identikit del vino consumato in occasione dei grandi banchetti della Roma di 2000 anni fa: aromi di noci e spezie per vini secchi, ambrati, dalla gradazione alcolica di circa l’11%, complessi ma al tempo stesso molto bevibili proprio grazie all’utilizzo di grandi recipienti di terracotta dal corpo arrotondato, fondo piatto e bocca larga per la loro produzione.

I dolia, realizzati da abili artigiani specializzati utilizzando miscele di argilla appositamente e accuratamente selezionate, venivano progettati con precisione e la loro composizione, forma e dimensione contribuiva alla fermentazione, conservazione e invecchiamento di vini che secondo i ricercatori grazie al loro impiego riuscivano a restituire specifiche caratteristiche organolettiche.

Questi recipienti avevano poi un’altra importante peculiarità, venivano regolarmente sepolti nel terreno fino alla bocca, come riscontrato nei siti di Villa Regina e Pisanella a Boscoreale, e Villa Augusto a Somma Vesuviana in Campania, da qui il termine latino “dolia defossa”.

Ma i romani non furono gli unici ad adoperare i vasi in terracotta per la vinificazione e da questo dato i ricercatori sono partiti per portare avanti il loro studio. Oltre agli antichi greci con i loro “pithoi”, significativa, soprattutto ai fini della ricerca, è l’esperienza della regione del Caucaso, considerata culla dell’antica vinificazione, dove le prime prove di contenitori sferici in ceramica, i “qvevri” provengono da siti georgiani del Neolitico datati 6000-5800 a.C., e quelle dei primi vasi interrati sono riconducibili alla vicina Armenia con testimonianze risalenti al 4000 a.C.

Una notevole affinità genetica è evidente anche tra le varietà di viti romane e caucasiche, prove che rafforzano la tesi di un trasferimento sia di cultivar che di tecniche produttive da est a ovest, forse portate in Italia attraverso contatti fenici ed etruschi. Questa tesi è supportata anche dall’impiego di recipienti in terracotta per la fermentazione a Byblos, nell’età del bronzo, lungo la costa fenicia del Libano.

I ricercatori hanno sottolineato come dolia e qvevri siano vasi simili per materiale, forma e ambientazione e il processo di vinificazione risulti sostanzialmente lo stesso per entrambi.

Per i romani la fermentazione sarebbe stata spontanea e legata ai lieviti presenti sulle uve, durando dai 9 ai 30 giorni durante i quali i dolia sarebbero stati tenuti aperti, con i vasi successivamente riempiti con altro mosto per limitare al massimo il contatto con l’aria e sigillati per cinque sei mesi con un disco in terracotta stuccato, o con coperchi in legno o semplicemente con pelli di animale, fino alla riapertura in corrispondenza dell’equinozio di primavera.

Il processo sarebbe molto simile, con i dovuti distinguo, alla moderna vinificazione georgiana, e la porosità di dolia e qvevri rappresenterebbe un altro elemento essenziale dal momento che permetterebbe al contenuto delle anfore di reagire con l’ossigeno proveniente dall’esterno, dando vita ad una vinificazione di tipo ossidativo, dove è proprio l’ossidazione controllata che può creare piacevoli sapori erbacei, di nocciola e frutta secca.

Anche le forme ovoidali inciderebbero per entrambe le tipologie di anfore sulla qualità del vino: poiché la fermentazione primaria produce anidride carbonica e modifica la temperatura all’interno di questi recipienti la loro forma ovoidale creerebbe correnti di convenzione interna che agirebbero come sistema di pompaggio naturale in grado di mescolare delicatamente i lieviti, le bucce e altri solidi, arricchendo la struttura del vino e favorendo l’uniformità della fermentazione.

La differenza tra gli antichi dolia e i moderni qvevri resterebbe quindi in termini di informazioni, essendo le procedure di vinificazione di questi ultimi molto più documentate nel dettaglio, per questo i ricercatori hanno voluto effettuare uno studio comparativo che ha consentito di migliorare l’interpretazione delle antiche fonti testuali sulla viticoltura e vinificazione in epoca romana restituendo una descrizione credibile del nettare di Bacco piacevolmente sorseggiato dai grandi imperatori.

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